Il nostro dovere.
L’unico tempo davvero mio, sospeso, ormai sembra essere solo quello del “tragitto”. Del passaggio tra un posto e l’altro. Se prima odiavo guidare, oggi lo attendo, quotidianamente. Mi metto al volante, collego il telefono con la mia musica e parto. Automatizzo il movimento e libero la mente. Le sole cose che ho scritto, nell’ultimo periodo, riguardano questo momento. Perché è quello che faccio, guidando: scrivo. A volte metto nero su bianco. A volte, semplicemente, tengo negli occhi. I profili di donne e uomini che sorpasso, che mi sorpassano, lungo la stessa strada. Le storie che mi immagino raccontate sulle righe dei quaderni di terza elementare dei guardrail, una mia versione del quotidiano, di altre case, di altre colazioni. Il tepore abbandonato di un letto, la fantasia delle lenzuola, i calzini, i lacci delle scarpe. Siamo tutti fratelli, ai miei occhi, chiamati da una madre che ci manca e che ci abita lo spazio stretto della gola, pronti a fare il nostro dovere, a trasportarci marcia dopo marcia, curva dopo curva, in una tasca da nonno che nasconde monetine senza regalarci niente. Siamo adulti che non sono stati avvisati, con agende di impegni grigi srotolate nelle palpebre e desideri d’oro spiegazzati, consumati, infilati tra le ultime pagine, che perdiamo sempre, che rispingiamo dentro, arrabbiati, infastiditi. Guidiamo in un’unica direzione, la sola che possiamo. Il mare ci scorre accanto. Gli ulivi ci muoiono accanto. Le gambe accelerano/frenano. I polsi ondeggiano. Ci sfioriamo. Ci guardiamo. Ci dimentichiamo.