Perché non scrivo più.

Perché non scrivo più.

7 novembre 2022

“Giorni evasi come cambiali” ho letto una sera in una poesia di Barbon. L’ho sentito incidersi per sempre nella memoria. Poi ho spento la luce, impostato la sveglia e forzato il sonno. Riproducendo esattamente il senso di quel verso, preparandomi per annientarmi.

“Perché non scrivi più?” mi ha chiesto qualche giorno fa mia madre. “Boh, lo faccio, continuo a farlo, nella mia mente”.

Non ho risposte. Non mi mancano gli occhi. Mi manca la misura nel palmo della mano. Non so più contare le distanze tra te e me e quello che stiamo provando.

Io voglio toccare ogni fianco, che il palmo deve coprire intero, sentirmi l’unità di misura di ogni vita, che inizia dalla punta delle mie dita ed attraversa ogni ventre, spuntando su ogni schiena, germogliando nelle vene del mio polso.

I venti centimetri della mia mano destra, punto di sutura di tutti i respiri rotti, di tutta la gente del mondo, che incontro senza incontrare, che ignoro perché mi fa innamorare. Ed ora dimmi, dai, come faccio a sentire la presa se devo stringere un cambio, un volante, un corrimano, il manico di una borsa, un qualsiasi aggeggio, questo cellulare. Non lo vedi? Non so più tenere la penna che scrive me. Non so più tradurre il vuoto del foglio nel mio fiato. Dovrei solo stringere mani, fianchi, spazi, corpi. Attraversare ventri. Perdere tempo, prendermi spazio. Ma ora non posso. Devo dormire. Stringere un cuscino. Devo svegliarmi. Devo farlo presto. Domani. E dopodomani. Evadere, solo, i giorni, come cambiali.

12 ottobre 2023

Non scrivo più, da quando ho troppo da dire. Da quando ho capito che sono fatta di interrogativi. Ma che tutte le domande che mi pongo sono diventate le risposte che temevo. Perché. Perché non posso sentirmi sempre come mi sentivo con te. Perché non posso avere ancora tredici anni. Perché ho sempre paura di parlare. Perché non posso ancora rotolare sull’asfalto con te, persa nel suono morbido del nostro millesimo primo bacio. Perché mi torni in mente ogni volta che brucio per le storie degli altri. Perché mi hai salutata l’ultima volta senza guardarmi. Senza sorrisi. Senza respiri. Dove sei andato a finire. E dove hai portato quella Me che riconosco più di me. Non potrai mai saperlo, ma non sono diventata l’adulta equilibrata che pensavi. Dove lo trovo l’equilibrio, se il contrappeso è il mondo e di qua, dove sono io, manchi tu. Tutto mi scaraventa in aria. Eppure provo ogni giorno ad amputare questo schifo di maturità che mi stringe le dita, la gola, che mi impedisce di sbagliare, che mi tira giù. Ogni passo che faccio, ogni libro che leggo, ogni film che vedo, ogni adolescente che incontro e non incontro, sei tu. I tuoi sedici anni. La tua fame. La tua vita davanti, che ci ha lasciati indietro.

20 settembre 2024

Mi ricordo. Scrivo, scrivo, scrivo. Scrivo tanto da rompermi i polsi, da far bruciare i muri. Pomeriggi, sere, notti. Flussi di luce, sole e bollette, tutto consumato dal mio battito di cuore che detta, detta, detta, e non sa rallentare. Ho 10 anni, ne ho 17, ne ho 20, quanti anni ho? Una scrivania e tutti i porti del mondo. E allora perché ho smesso?

“Non ho più tempo”, dico. “Sono diventata grande”, dico. Parlo, e non scrivo. Ma qual è il tempo che non ho. Io semplicemente non riconosco più le parole. Non le voglio più ascoltare. Non mi fido di chi mi fa male. Non le voglio più vedere. Ok, le leggo, le raccolgo, le strappo dal mio odio, ma non voglio esserne la madre, non voglio più vederle germogliare. Non è il tempo che non ho. Sei tu, che io non ho. Che mille lettere d’amore non ti hanno fatto ritornare, non mi hanno fatto raccontare, non sono servite proprio a un cazzo. È la voglia, che io non ho. La fiducia, che io non ho. Perché se è vero che scrivere ferma, che verba volant e scripta manent, perché, allora, a me, ha tolto tutto, anche il tuo nome? “Vuoi fare la scrittrice?”, avevo sette anni, e più significati che parole. “No, non mi interessa. Io non voglio pubblicare. Io voglio dedicare”. Ed è questo che, oggi, mi rimane. Dediche, solo. Montagne di carta, di byte, e il doppio del dolore.

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