Il mercato del pesce.

Il mercato del pesce.

Aspetto ogni giorno quel semaforo, sperando che sia rosso. A destra il mare, a sinistra l’ingresso di un istituto superiore. Attendo in coda, per rivolgermi con tutta me stessa a sinistra, dando quasi le spalle al mare. Ossessionata dall’adolescenza. Osservo identici mondi diversissimi raccontarsi l’accenno profondissimo delle loro vite, gesticolando in anelli enormi, ampi, di possibilità, di potenza. Le giacche aperte, le gole scoperte, il freddo che arrossa la punta del naso e stringe i muscoli, senza farsi davvero sentire. Attraversati a tratti da adulti passanti, con i colli stretti dai cappotti, presi di mira dal freddo, che gesticolano in geometrie strettissime di assenze.

Gli anelli enormi delle mani tagliati dalle concessioni, dalle mancanze, dalle economie, dalle tasche. La differenza tra chi deve avere il resto e chi gratta il fondo per cercare quel che resta. Spingendo nelle tasche, spingendo nelle tasche, anno dopo anno, per il freddo insopportabile, per tutte quelle cazzo di mancanze, senza più tendere alla tensione, senza più tendere alla curva, alla proiezione, senza eccedere, senza urlare.

Mentre stormi di ragazzi in ali di jeans e nylon e pellicciotti fucsia e cappotti H&M e felpe e felpe e felpe e sciarpe perse mostrano i fianchi al mondo, liberi dalle armi, tutti archi senza frecce, urlanti, drammatici anche nella goliardia. “Fate silenzio! Non stiamo al mercato del pesce!”.

Ma io è questo che rivoglio. Lo rivoglio. È questo che guardo, che mi accende la parte sinistra del corpo, ogni mattina, dove per coincidenza, vedi, ho anche il cuore. È questo che mi incanta. Il mercato del pesce che traduce la complessità del mare.

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